Sergio Marchionne

Il metodo/Un’eredità che spazia tra contratti e politica

di Giuseppe Berta
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Sergio Marchionne ha vissuto sul ponte di comando prima di Fiat al Lingotto e poi di Fiat Chrysler Automobiles 14 anni.
Sono stati anni straordinariamente intensi. Per lui, certamente, che coi suoi tremendi ritmi di lavoro ha sopportato un carico gravosissimo di impegni e di fatica come per il sistema dell’automobile, soggetto a una trasformazione vertiginosa a livello mondiale.

Nell’estate del 2004, un manager quasi sconosciuto in Italia, ma preceduto da una fama di abilissimo risanatore di imprese, si insediò al Lingotto e in tre anni (tra i suoi migliori) cambiò l’immagine di un gruppo che era sull’orlo del fallimento in un simbolo di rilancio. Marchionne in primo luogo creò un modello di corporate governance, drammaticamente carente in Fiat; poi si rivelò un dottissimo negoziatore, sciogliendo a proprio vantaggio l’alleanza con General Motors; infine, lanciò la Cinquecento, che è ormai un marchio a sé stante. In seguito, nel pieno della crisi globale, scommise sull’alleanza con la Chrysler, che gli altri produttori davano ormai per morta; ideò nel 2009 un gruppo globale capace di produrre 6 milioni d’auto all’anno, ma mancò il traguardo per l’opposizione compatta del sistema tedesco, che non gli volle cedere la Opel, nonostante allora la proprietaria Gm non fosse contraria. Da ultimo,nel 2015 si accinse a un’operazione temeraria, un’Opa proprio su Gm per costituire il più grande gruppo automobilistico del mondo, ma venne stoppato e dovette rinunciare al suo disegno ambizioso. Così ha ripiegato sull’obiettivo di ripulire Fca dal debito e assicurandole solidi livelli di redditività. Questi i risultati nel momento in cui esce dalla scena lavorativa.

Gli succede il brillante Mike Manley, responsabile dei marchi Usa che vanno meglio, Jeep e Ram, un autentico esperto d’automobilismo, un vero uomo di Detroit. Come e che cosa raccoglierà della complessa eredità di Marchionne?

Oggi nessuno può saperlo, ma certo qualche preoccupazione serpeggia, soprattutto in Borsa e in Italia. Perché Manley dovrà creare un suo stile di leadership , che non potrà che essere molto diverso da Marchionne, inimitabile per definizione. E poi c’è il fatto che Manley rappresenta due marchi che sono la quintessenza dell’America: Jeep è quanto di più yankee ci sia, mentre i pickup Ram sono auto pensate per il mercato Usa. Ora, è vero che Fca punta soprattutto sul successo mondiale del marchio Jeep, che secondo Marchionne possiede potenzialità enormi , ma questo deve tradursi in un costante ampliamento di mercato. Le cifre dicono che per il momento funziona: Jeep è un marchio che cresce con velocità inusitata. E non solo in America: in Italia, in questo primo semestre 2018, ha raddoppiato le vendite e sta crescendo in maniera sostenuta in Europa. Lo stabilimento di Melfi ha bisogno che questo trend si consolidi ancora, perché c’è il rischio che i dazi che Donald Trump vuole imporre sulle auto d’importazione crei un bel problema per Fca. In America, i produttori, i componentisti e persino sindacati si sono mobilitati per dimostrare alla Casa Bianca che il protezionismo è pura follia per l’industria Usa, ma riusciranno a incidere sulle convinzioni di un presidente che non sembra prestare orecchio alle obiezioni, per quanto razionali esse siano?

Inoltre non dimentichiamo che il piano industriale, che Marchionne ha illustrato all’inizio dello scorso giugno e di cui dovrà adesso occuparsi Manley, assegna all’Italia una ben definita missione produttiva, quella di sviluppare la produzione dele vetture di fascia alta, fino a configurare domani un vero e proprio “polo del lusso”, unendo i marchi Alfa Romeo e Maserati. Ebbene, in questo caso i numeri ci dicono che si tratta un’operazione di grande respiro e di altrettanta difficoltà. Significa infatti sfidare sul proprio terreno i produttori più agguerriti: case come Mercedes, Bmw, Audi, Toyota e altre ancora, nel segmento di mercato dove tutti o quasi si stanno specializzando nella fabbricazione dei Suv. Basta confrontare le quote di mercato di questi marchi con quelle detenute da Alfa Romeo per constatare la distanza che ancora separa i primi dalla seconda. Anche in Italia.
Ora la prospettiva della nostra industria automobilistica si gioca su questi fronti, come quella dei nostri stabilimenti, che devono fare i conti, da un lato, con un incalzante cambiamento tecnologico e, dall’altro, col mutamento radicale che sta subendo lo scenario internazionale, con Trump che vuole le barriere protezionistiche e i cinesi (oggi detentori del primo mercato del mondo) che vogliono a tutti i costi diventare esportatori.
Da questi mutamenti dipende una parte importante del nostro futuro economico. Mike Manley potrà esercitare un ruolo rilevante. Ma non è detto che stavolta non tocchi anche ad altri gruppi affacciarsi sulla realtà italiana per coglierne le potenzialità.

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Domenica 22 Luglio 2018 - Ultimo aggiornamento: 24-07-2018 13:14 | © RIPRODUZIONE RISERVATA
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