La presentazione del libro su Ignazio Giunti al salone dell'Auto e Moto d'Epoca a Padova

Ignazio Giunti, il ricordo indelebile di un campione vero. La storia del pilota romano nel libro del nipote Vittorio Tusini Cottafavi

di Franco Carmignani
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Nell’inverno di cinquant’anni fa maturava l’abbinamento che un po’ gli appassionati di motori auspicavano. Ignazio Giunti il miglior pilota della nuova generazione venne ingaggiato dalla Ferrari, dopo aver detto no a Ferdinand Piech e John Wyer che lo avrebbero voluto al volante delle Gulf-Porsche assicurandogli anche un volante in F1.

Giunti arrivava da una carriera sempre in crescendo che l’aveva portato al professionismo in seno alla squadra ufficiale Alfa Romeo.

Del grande campione romano si è recentemente parlato a Padova dove è stato dedicato uno spazio importante al libro scritto dal nipote Vittorio Tusini Cottafavi, edito da Rubbettino, che ci accompagna nel riviverne la storia e l’epopea delle corse di allora.

“Da giovane i tratti caratteristici di Ignazio erano: l’irrefrenabile vivacità e la scarsissima voglia di studiare, che ne facevano una specie di Gian Burrasca; il carattere temerario e orgoglioso; il fascino sulle ragazze; la passione e il talento innati per la velocità e la guida. Da teen-ager fu scavezzacollo imbattibile nelle gare improvvisate e clandestine di moto e macchine nell’Italia del boom economico, nella Roma della “dolce vita”.

Poi le corse, quelle vere…

“Non ancora ventenne – prosegue Tusini Cottafavi- le prime competizioni ufficiali (1961-1965) con la sua famosa Giulietta blu - ma anche con tante altre macchine (Alfa Romeo Giulia e SZ, Abarth 1000, Fiat 500, BMW 700) – dove si distinse per i tanti successi nelle corse in circuito, in salita e nei rally, in Italia e all’estero; ma soprattutto divenne un beniamino del pubblico appassionato di quegli anni per lo spettacolo che sapeva offrire in ogni circostanza con la sua guida fatta di irruenza controllata, acrobazie, velocità pura”

E qui interviene l’Alfa Romeo

“Nel 1965 l’Alfa Romeo aveva rivisto i propri programmi e rafforzato il proprio impegno diretto nelle corse. Fu allora quasi inevitabile che le strade di Giunti e dell’Alfa si incrociassero ancora nel 1966. Per Ignazio fu l’avvio della definitiva affermazione come pilota professionista; per l’Alfa l’inizio di un periodo leggendario nelle competizioni delle classi turismo e poi sport-prototipo”.

Merito soprattutto di un grande presidente

“Il destino sportivo dell’Alfa Romeo in quella metà degli anni ’60 fu segnato da tre fattori vincenti: un uomo, il presidente Giuseppe Luraghi; un’organizzazione, la scuderia Autodelta; una macchina, la Giulia GTA. Per guidare le nuove Alfa Romeo entrò in campo un’eccellente squadra di piloti, per lo più nostrani: Luraghi tra gli obiettivi pubblici della sua azienda includeva anche la valorizzazione dei ragazzi italiani.

Con l’Autodelta (all’inizio col Jolly Club) e la GTA Giunti nel 1966 divenne un jolly prezioso da mettere in campo nelle gare e con gli avversari più difficili. Nel 1967 gli fu assegnato un obiettivo specifico, strategico per l’Alfa, il Campionato Europeo della montagna. Ignazio centrò in pieno l’obiettivo: conquistò il titolo europeo vincendo tutte le gare, eccetto la prima, dove giunse secondo per un testa-coda.

E’ nelle gare del 1966-67 con la GTA che nacquero e si affermarono due binomi mitici nell’ambiente delle corse di allora: Giunti - Nanni (Galli), i giovani velocissimi “gemelli” dell’automobilismo italiano, e quello di Ignazio con il preparatore romano Franco Angelini, guidando le macchine del quale era il mattatore delle corse invernali a Vallelunga, quando non era impegnato con l’Autodelta”.

Dalla GTA alla 33 il passo è breve

I successi delle GTA in tutto il mondo portarono grandi ritorni all’Alfa Romeo in termini di fama e di vendite. Il Presidente Luraghi decise allora di intensificare gli sforzi della casa nei programmi sportivi intraprendendo la nuova avventura tra le sport-prototipo con una macchina da corsa “pura”, la “33”.

Nelle sue diverse versioni – la prima del 1967, la nuova 2000 c.c. del 1968 e la 3000 c.c. del 1969 – la 33 fu sempre esteticamente bellissima ma anche molto difficile da guidare.

I piloti dell’Autodelta rappresentavano il fior fiore dell’automobilismo italiano dell’epoca (la maggior parte provenienti dalla scuola delle GTA) con l’innesto di alcuni bravi ed esperti stranieri. L’ambiente nella squadra era sano e scevro da intrighi e favoritismi.

Sì il 1968 fu un anno eccellente, ma il Campionato Mondiale Marche si aprì non molto bene per l’Autodelta e ancor peggio per Ignazio Giunti, che a Daytona Beach ebbe un grave incidente per fortuna con danni limitati.

Dopo poche settimane Ignazio era di nuovo in pista. Alla Targa Florio, ancora convalescente e con le ferite al braccio non del tutto rimarginate, incantò il caloroso pubblico siciliano con una guida spettacolare. Sfiorò, in coppia con Nanni, la vittoria assoluta contro lo squadrone della Porsche e i compagni dell’Alfa tra i quali l’idolo locale Vaccarella. I due giovani italiani giunsero secondi con un distacco irrisorio dalla più potente Porsche di Vic Elford.

Poi Giunti-Nanni furono vincitori di classe e nelle primissime posizioni assolute nelle due gare più prestigiose del calendario mondiale: la 1000 Chilometri del Nurburgring e la 24 Ore di Le Mans. Ignazio vinse il Gran Premio della Repubblica a Vallelunga e fu il più veloce sia nell’altra classica corsa stradale italiana, il circuito del Mugello, che alla 500 Km di Imola, dove però le sue prestazioni furono rovinate da problemi tecnici”.

Una grande epopea quella dei prototipi quegli anni

“Due mi sembrano le notazioni fondamentali sul mondo delle corse di allora rispetto a quelle di oggi. Intanto, la formula 1 non aveva ancora fagocitato tutte le categorie delle competizioni ed era in fondo il “territorio” un po’ angusto di un gruppo di bravissimi telaisti britannici (con l’aggiunta della scuderia Ferrari). Erano piuttosto le corse dei campionati del mondo per vetture sport-prototipo a rappresentare l’automobilismo con la “A” maiuscola; a essere l’obiettivo strategico delle grandi case automobilistiche e le manifestazioni più seguite dal grande pubblico.

Il secondo aspetto è il rischio: la morte era un elemento immanente all’automobilismo che, per questo, era uno sport epico, di valori assoluti, e i suoi protagonisti, i piloti, erano visti come eroici condottieri, i “Cavalieri del Rischio”. Quella di Ignazio fu una generazione di piloti tra le più forti di sempre ma fu purtroppo letteralmente falcidiata da una serie incredibile di incidenti fatali”.

A fine 1969 la Ferrari

“La trattativa con Enzo Ferrari fu rapida e fruttuosa. Il clima nella squadra invece era difficile, molto diverso da quello che Ignazio aveva lasciato all’Autodelta. L’attenzione della stampa (italiana) era spasmodica. La sfida ai massimi livelli per il confronto con compagni di squadra e rivali fortissimi (le formidabili Porsche 917 e 908/3 guidate da Rodriguez, Siffert, Elford ecc.), per calendari di prove e corse senza sosta e, sullo sfondo, quei rischi elevatissimi di cui ho detto.

La Ferrari 512 si rivelò inferiore alle Porsche rivali. Giunti però dimostrò subito il suo talento e scalò presto le gerarchie interne alla squadra. Ottenne i migliori risultati della stagione per la Ferrari: una vittoria (con Vaccarella e Andretti) alla 12 di Sebring (l’unica della Ferrari in quel Mondiale); un’entusiasmante performance alla 1000 Chilometri di Monza dove, dopo aver dominato i primi giri, giunse secondo al traguardo (insieme a Vaccarella e Amon); diede spettacolo con Vaccarella alla Targa Florio (giungendo terzo dietro a due agilissime Porsche 908/3); fu ancora protagonista al Nurburgring; quarto a Spa (con Vaccarella); terzo a Watkins Glen (con Andretti); ottenne anche l’unica altra vittoria della Ferrari in quel 1970, a fine stagione, in Sud Africa a Kyalami (in coppia con Ickx)”.


Ed ecco l’esordio in F1

“Ferrari dopo il primo scampolo del Mondiale Marche non era certo soddisfatto delle performance della sua sport ma lo era invece, e pienamente, di quelle del suo giovane pilota italiano. Un giorno, gli offrì a “brucia pelo” di debuttare a Spa nel GP del Belgio, il circuito più veloce e pericoloso del mondiale. Ovviamente Giunti accettò subito, anche se non aveva praticamente esperienza di monoposto, né il tempo di effettuare i necessari test.

Ma il debutto fu eccezionale perché, pur partendo male (da un’ottima 3^ fila), Ignazio giunse 4° al traguardo (invero era 3° ma per errore fu richiamato ai box dai commissari per una perdita d’olio inesistente); ottenne per la Ferrari i primi punti mondiali dell’anno; realizzò in gara un miglior tempo sul giro più veloce di quelli fatti segnare dal grande Jochen Rindt con la Lotus e dall’altro pilota Ferrari Ickx, che correva sul circuito di casa.

Le altre prove del mondiale di formula 1 cui partecipò confermarono il talento di Ignazio ma furono contrassegnate da una serie di disavventure che ne compromisero i risultati. Ignazio doveva alternarsi sulla seconda Ferrari con Clay Regazzoni, un gran “piedone” da anni in monoposto (quella stagione si laureò campione europeo di F. 2, con la Tecno, battendo Bell e Fittipaldi). Fu sfortunato soprattutto a Zeltweg in Austria dove avrebbe meritato la terza posizione, che perse nel finale per l’afflosciamento di uno pneumatico (giunse 7°) e a Monza dove nutriva speranze di vittoria, che invece – ritirati lui e Ickx – arrise a Regazzoni.

Alla fine di quella stagione 1970 Ignazio Giunti fu proclamato Campione italiano assoluto. In cuor suo era molto soddisfatto di quanto aveva dimostrato in un contesto molto difficile. Guardando al futuro era fiducioso perché il programma per il 1971 gli offriva molte opportunità (col nuovo prototipo da 3000 c.c., la 312 PB, prima guida con Ickx; con la formula 1, in alternanza con Andretti) e Ignazio, cui certo non mancava la forza d’animo e la sicurezza nei propri mezzi, era convinto che le avrebbe sapute sfruttare al meglio, con un po’ di esperienza e, magari, di fortuna in più rispetto all’anno appena trascorso”.

Purtroppo invece le cose non andarono così. Ignazio Giunti perse la vita nella prima gara del Mondiale marche del 1971, in Argentina sul circuito di Buenos Aires, in un incidente disgraziato innestato da disgraziati.

Ignazio, alla guida della nuova fiammante 312 PB aveva dato spettacolo in prova e conduceva brillantemente in testa la gara dinanzi a un nugolo di Porsche 917 guidate dai soliti campionissimi Rodriguez, Siffert, Elford e, nella circostanza, anche dai giovani sud americani Emerson Fittipaldi e Carlos Reutemann.

L’incidente fu determinato da una serie incredibile di drammatiche circostanze e responsabilità. La Ferrari di Ignazio si schiantò e prese fuoco nel tamponamento della Matra, rimasta senza benzina, che il pilota francese Jean Pierre Beltoise spingeva incoscientemente verso i box e a centro pista; i commissari di gara non fecero nulla per impedire quella manovra; per Ignazio, impegnato nel doppiaggio di una macchina più alta e ingombrante (la Ferrari 512 dell’inglese Mike Parkes), fu impossibile evitare l’impatto; morì sul colpo il collo spezzato e il cuore arrestato dalla violenta decelerazione.

Seguì una lunga scia di dolore profondo per la perdita del giovane campione e di incandescenti polemiche. La ricerca delle responsabilità durò a lungo e si concluse con una condanna di Beltoise a un periodo di squalifica dalle gare di alcuni mesi. Ciò che però conta è che per lo sport automobilistico il drammatico incidente di Giunti, quella sua folle dinamica e quel vasto dibattito internazionale che ne seguì contribuirono in modo decisivo a una svolta sul tema della sicurezza nelle corse. Per arrivare a dei risultati definitivi ci vollero purtroppo ancora diversi incidenti e drammi, ma una nuova via fu probabilmente imboccata proprio allora col sacrificio di Ignazio Giunti.

La morte di Ignazio Giunti, come scrive Rattazzi nella prefazione al libro di Vittorio Tusini Cottafavi, ha privato l’Italia di un potenziale campione del mondo e lascia ancor oggi un grandissimo rimpianto, che è espresso molto bene dall’associazione delle immagini di un video mandato in onda dalla RAI curato da Lino Ceccarelli, amico fraterno del pilota, con il brano musicale “El Condor Pasa”, una “zarzuela” andina che invoca “O grande condor delle Ande riportami a casa mia”, purtroppo la grande aquila stilizzata del casco di Ignazio non riportò a casa il suo giovane campione da quelle terre lontane.

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Domenica 3 Novembre 2019 - Ultimo aggiornamento: 05-11-2019 09:33 | © RIPRODUZIONE RISERVATA
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