I giorni dell'Armistizio nei panni
della Marina: "Tutti a Bordo"

I giorni dell'Armistizio nei panni della Marina: "Tutti a Bordo"
di Fabio Fattore
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Sabato 12 Dicembre 2009, 13:54 - Ultimo aggiornamento: 10 Gennaio, 23:30
ROMA (12 dicembre) - “Tutti a casa”, la parola d’ordine che ha segnato i giorni neri dell’armistizio, per gli uomini della Regia marina dovrebbe essere sostituita con “tutti a bordo”. Lo dicono i capitani di vascello Patrizio Rapalino e Giuseppe Schivardi, che nel libro Tutti a bordo! I marinai d’Italia l’8 settembre 1943 tra etica e ragion di Stato (a cura di Maurizio Pagliano, prefazione di Gianni Riotta, Mursia, pag. 352, 18 euro) ricostruiscono pagine di storia dimenticate o trattate, nella migliore delle ipotesi, con superficialità.



Lo fanno con coraggio: sono due ufficiali in servizio attivo e molti luoghi comuni sulla marina italiana durante la Seconda guerra mondiale, compreso il mito di una certa sua distanza dal fascismo, sono sopravvissuti fino ad oggi. Lo fanno con serietà e rigore, attingendo da fonti e testimonianze anche inedite in Italia e all’estero, e da un punto di vista originale che deriva dall’essere essi stessi ufficiali: quello cioè della psicologia e dell’etica di chi si è formato in Accademia e a cui viene affidato il comando di una nave, il senso dell’onore e del dovere, e tutti i contrasti e le lacerazioni più intime sofferte da gente di questa stoffa.



Perchè è vero che, a differenza delle altre forze armate abbandonate a se stesse e al loro sfascio, Supermarina fu in grado di trasmettere a tutte le unità, grazie «alla particolare organizzazione delle navi e all’efficiente sistema di comando e controllo», ordini chiari e tempestivi, che consistevano in sostanza nel fare rotta verso le basi degli anglo-americani, consegnarsi a loro ma mantenere la bandiera italiana.



Ma l’esecuzione di questi ordini non fu né facile né scontata. Anche perchè fino a poche ore prima molti comandanti erano in mare pensando e sperando di potere affrontare il nemico diretto a Salerno in un’ultima, epica e disperata battaglia. Una battaglia che di fatto, durante tutta la guerra, non c’era mai stata: Rapalino e Schivardi, tra l’altro, ne danno una loro spiegazione, opponendosi a quanti hanno attribuito la sconfitta della marina «più ai mezzi che all’impiego degli stessi», cioè alla mancanza di radar, sonar, portaerei, aviazione navale, nafta e non al deficit di strategia e teste pensanti.



La flotta italiana era tra le primissime al mondo, era arrivata all’8 settembre in condizioni tutto sommato buone ed era comprensibile che ci fosse chi, pensando già al dopoguerra e all’Italia da ricostruire, volesse preservarla integra: sarebbe stata una delle pochissime carte da giocare al tavolo della pace, specie se gli alleati ne avessero accettato la collaborazione sia per il prosieguo della guerra nel Mediterraneo (come di fatto avvenne, anche se limitata a servizi di scorta e trasporti) sia nel Pacifico contro i giapponesi (ma quest’ultima ipotesi naufragò perchè gli inglesi, «soddisfatti di aver chiuso la partita senza aver combattuto la battaglia decisiva... non volevano che la loro vittoria fosse messa in discussione nell’affidare un ruolo importante alla Regia marina nella cobelligenza»).



L’armistizio, per la Regia marina, non significò il semplice passaggio della flotta agli anglo-americani (su 169 unità navali, 118 partirono per i porti controllati dagli alleati, 12 furono prese dai tedeschi ma 39 si autoaffondarono). Fu la tragedia della corazzata Roma, affondata dall’aviazione tedesca. Fu il dramma di quanti, lontani dal Mediterraneo, presero decisioni ancora più difficili e spesso opposte: dai sommergibili in Atlantico che continuarono la guerra con il Reich alle unità sparse tra Africa e Asia che si consegnarono agli alleati o finirono nelle mani dei giapponesi. E fu anche il risveglio di una generazione di uomini di mare, educati all’amore di patria, al senso dell’onore e allo spirito di sacrificio: «L’8 settembre aveva mostrato a questi ufficiali che pensavano di vivere in un mondo fatto di valori cavallereschi, che la ragion di Stato può invece richiedere slealtà e opportunismo».
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